Aprire un paese è un concetto che richiama immediatamente un’operazione piuttosto fisica. Aprire le piazze, i cortili, la porta delle stalle o di ciò che resta, spalancare i portoni delle case. Insomma rendere accessibili degli spazi reali che altrimenti, normalmente non lo sarebbero. Ma questa azione, come si diceva confinata ad un piano fisico, pratico, si presta ad essere completamente trasposta.

Cerco di spiegarmi.

Vediamo. Forse il modo più semplice è quello di mettere il verbo aprire al riflessivo: aprirsi. Penso che così risulti chiaro già subito che è possibile ripensare il tutto su di un piano più astratto.

Aprire il paese conduce ora ad un’idea personale, interiore: aprirsi, confrontarsi, mettersi in relazione.

Ecco mi pare che questo tipo di approccio sia la sorpresa di questa esperienza di Paesi Aperti. Aprire degli spazi sì, ma soprattutto trovare delle persone disposte ad aprire se stesse, a raccontarsi, ad ascoltarsi, a collaborare, a confrontarsi.

Confronto geografico tra il gruppo folk il Bassanello di S.Martino in Alpago e Nuova Erto, o confronto culturale che trasuda dalla poesia del circolo dialettale “Al Zenpedon” espresso con tanta passione dal maestro Noro, o ancora confronto storico scaturito dai vecchi attrezzi, ormai esposti come reliquie.

Trovare un’identità comune in questo modo è sicuro viatico di coesione: identità geografica, culturale o storica. Non importa bemmeno che si tratti di radici comuni, l’importante è trovare il minimo comune multiplo, quell’elemento, anche unico, che unisce.

E’ questa la chiave di lettura dei Paesi Aperti. Forse un po’ utopistica, d’accordo, ma in questi casi occorre anche saper sognare; e in fondo nemmeno troppo vista la voglia della gente di riscoprire vecchie storie, vecchi mestieri, vecchi sapori dimenticati;  cioè di ancorarsi ai valori condivisi, di una volta.

Polpet, come tanti Paesi, ne ha bisogno e d’altronde ne possiede. Certamente S.Andrea.
Forse oggi anche un po’ la polenta.
Domani…forse proprio la latteria.

ILMORODIVENEZIA